In che modo i recenti combattimenti nel Nord Kivu tra l’esercito e l’M23 potrebbero peggiorare la crisi umanitaria nella RDC?

**Ripresa dei combattimenti nel Nord Kivu: una spirale di violenza ininterrotta**

Gli accordi di pace e gli impegni internazionali si scontrano ogni giorno con la dura realtà dei combattimenti che devastano la Repubblica Democratica del Congo (RDC). Ciò che sta accadendo a Lubero, nella provincia del Nord Kivu, ne è un esempio lampante. Giovedì 9 gennaio 2025, gli scontri tra le Forze armate della Repubblica Democratica del Congo (FARDC) e i ribelli dell’M23 tornano a farsi sentire, gettando la popolazione nell’angoscia. Gli echi delle armi pesanti e leggere testimoniano una situazione che, lungi dal stabilizzarsi, non fa che complicarsi.

Da una prospettiva storica, è essenziale chiarire che la rinascita dell’M23 non è un semplice fenomeno isolato, ma il risultato di decenni di tensioni interetniche, di lotte per il controllo delle risorse e di fallimenti degli interventi internazionali. L’M23, formato da dissidenti dell’esercito ugandese, è il prodotto di un ambiente in cui l’impunità ha prevalso a lungo. Ogni ciclo di prosperità preceduto dalla guerra sembra inevitabilmente portare lotte di potere e sofferenze per le migliaia di congolesi che semplicemente desiderano la pace.

In un contesto in cui l’approvazione degli organismi internazionali, come l’ONU, è spesso ritardata, il presidente della società civile di Lubero, Muhindo Tafuteni Waley, propugna una via di risoluzione del conflitto che sembra disperata, ma rivela la sfiducia verso le soluzioni politiche. La sua proposta di attaccare su tutti i fronti rivela una filosofia del confronto che, nonostante il suo aspetto marziale, solleva una domanda cruciale: la guerra è davvero una soluzione praticabile per una pace duratura?

Gli stili di guerra e di pace che Lubero e Masisi si trovano ad affrontare richiamano i paradossi tra la forza militare e l’instabilità politica. Il massiccio dispiegamento di truppe e l’incoraggiamento della lotta armata possono contribuire a liberare alcune zone dagli insorti, ma provocano anche vittime civili e destabilizzano le comunità locali. I risultati delle precedenti offensive, pur producendo occasionali avanzamenti territoriali, spesso si accompagnano a massicci spostamenti di popolazione e al ripristino della paura e dell’incertezza.

Statisticamente, i conflitti nel Nord Kivu hanno avuto l’effetto di aumentare il numero di sfollati. Attualmente si stima che diversi milioni di congolesi vivano in condizioni precarie, spesso sotto la minaccia diretta del conflitto armato. Gli operatori umanitari sul campo segnalano un aumento allarmante della sofferenza umana, con i campi profughi che si trasformano in aree di estrema necessità salvavita. Alimentare questa spirale di conflitto potrebbe portare al crollo totale delle strutture sociali ed economiche, sospendendo la speranza di redenzione..

Un’analisi comparativa della situazione in Ucraina, che ha evidenziato il sostegno internazionale a un’invasione, evidenzia un solido sostegno politico, logistico e militare. Al contrario, la RDC trae vantaggio da un approccio più individualizzato e vago, in cui l’assistenza è spesso ostacolata da complesse questioni geopolitiche. Ciò ci porta a porci domande sull’efficienza della comunità internazionale: è possibile immaginare una coalizione militare concertata per liberare lo Stato congolese da un fardello così pesante come un esercito insurrezionale, oppure questa azione sarebbe percepita come un’ingerenza nella affari interni di uno stato sovrano?

L’approccio della società civile, che sembra proiettarsi verso una dinamica più militare, può essere oggetto di un dibattito delicato. Quali alternative sono plausibili, a parte la guerra aperta? Anche la mediazione e il dialogo, sebbene finora apparentemente inefficaci, potrebbero rappresentare una via d’uscita. Un appello urgente alla diplomazia regionale con il sostegno delle organizzazioni intergovernative potrebbe rinvigorire le dinamiche della pace.

È quindi fondamentale che i paesi vicini e la comunità internazionale riconsiderino il loro ruolo in questo conflitto, la cui profondità e ampiezza sono difficili da comprendere. La chiave non sta solo nel risolvere militarmente la crisi, ma nel creare un ambiente in cui il commercio, il dialogo e il sostegno umanitario siano i pilastri per la ricostruzione di una nazione devastata dal conflitto. Il rapporto tra le forze presenti e la popolazione civile deve essere rivalutato, perché alla fine sono queste popolazioni a pagare il prezzo più alto. In ogni caso, la comunità internazionale, sia nell’emergenza militare che nell’assistenza umanitaria, deve ammettere una tragica verità: nella RDC la pace sarà raggiunta solo quando si porrà fine a questo ciclo di violenza incessante.

Resta da vedere se la storia di questa regione cambierà alla fine grazie a un dialogo autentico o se continuerà a essere dominata dallo scontro armato.

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