** Verso un’utopia migratoria: il precario equilibrio tra impegno e indifferenza **
Durante la seconda riunione ministeriale della via di migrazione dell’UE verso il corno d’Africa, un sipario di diplomazia si aprì alle verità spesso soffocate sotto il peso di una retorica costantemente ripetuta. In un contesto in cui l’eleganza dei discorsi nasconde realtà complesse, il ministro egiziano degli affari esteri, Badr Abdelatty, ha parlato degli sforzi del suo paese per rallentare i migranti.
La sua affermazione secondo cui “nessuna barca migrante” ha lasciato la costa egiziana dal 2016 merita di essere scavata. Ma il vero problema non è tanto questa apparente assenza di navigazione, quanto la realtà sperimentata sul campo: 10 milioni di rifugiati sono “ospitati” in Egitto, in modo da illusione un paese che frequenta solennemente il vagabondaggio di coloro che potrebbero rischiare la vita per unirsi all’Europa. L’aspetto preoccupante qui è il groviglio della vita dei rifugiati in un paese che lotta per offrire servizi di base.
“Abbiamo bisogno di supporto per le comunità ospitanti”, ha detto, ma dietro questa richiesta di aiuto nasconde una forma di ulcerazione che poco desidera ammettere. Gli europei, consapevoli dell’ascesa degli estremi, sono catturati nella tela di una politica migratoria in cui l’iperregolazione si imbatte in un’assenza di proverbio di ideale a favore della sicurezza, che rimane precaria. Dopotutto, che tipo di umanità ci aspettiamo dagli aiuti internazionali che giura di mantenere il flusso di migranti a distanza?
Ironia straordinaria: mentre l’Egitto è posizionato come un bastione del controllo migratorio, è anche la terra della ricezione di una diaspora di sofferenza, in cui i rifugiati siriani, sud-sudanici e yemeniti si accumulano all’ombra dell’indifferenza. Questo paradosso del rifugio che si trasforma in detenzione (mentre le condizioni di vita si deteriorano) solleva almeno una domanda inquietante: come vengono percepite queste milioni di vite? Come opportunità economiche di sfruttare o come sepolture da gestire?
Il significativo degrado dei finanziamenti umanitari, con il ritiro dell’agenzia americana USAID, arriva a Plum questa dinamica. Katja Keul, ministro di stato al di fuori della Germania, ha sottolineato il disastro causato da un vuoto finanziario che nessuno può riempire completamente. Questa dichiarazione risuona come una disillusione, come un grido impercettibile in un’eco di promesse non detenute. Cosa possiamo aspettarci da un mondo in cui l’assistenza è disponibile in base agli interessi politici fluttuanti?
Diventa quindi necessario chiedere: cosa significa veramente “investire nel lavoro”? I migranti sono lavoratori extra da utilizzare per premiare uno sforzo di ospitalità o, più tragicamente, pedine in un gioco domino in cui ogni paese cerca di spingere il problema verso un altro? Da qualche parte tra Khartum e Berlino, la prospettiva di una sincera cooperazione sembra flettersi prima della mancanza di visione olistica.
Resta il fatto che il dialogo continua, perché è nella disperazione insondabile che la voce dell’invisibile sale lentamente. Le profonde cause di merite di sfollamento, violenza, soluzioni audaci di interruzione climatica, un impegno oltre l’istantanea e un approccio che non si limita alla sicurezza delle frontiere.
In questo dipinto, un punto interrogativo si aggira: mentre l’Europa sta lottando nelle sue contraddizioni di fronte alla migrazione, l’Egitto riuscirà a tradurre queste aspirazioni umanitarie in realtà palpabile per il numero maggiore? Si spera che una verità più coraggiosa risuona qui ricordando a tutti che il fatto di ignorare il ruggito del vento non lo calma. Una vera solidarietà, che va oltre i discorsi diplomatici, deve iniziare, perché, a questo ritmo, se il vicolo cieco persiste, le barche non saranno le uniche a rischiare di capovolgere.